Sotto il colossale spazio dell’altare maggiore, a ridosso del Baldacchino del Bernini, riaffiora una storia che modifica la lettura delle origini cristiane. Nel sottosuolo della Basilica di San Pietro riaffiora la memoria di un murale sul Vangelo databile tra la fine del III-IV secolo, un frammento inciso su intonaco in una necropoli che scorre sotto il pavimento della basilica. Non si tratta di una scoperta recente sul campo, ma di un documento che è tornato all’attenzione pubblica dopo decenni di oblio grazie a un volume stampato negli anni Cinquanta e consegnato in copia negli anni Novanta all’unico testimone diretto ancora in vita: il sacerdote spagnolo don Alfredo Fernández Martin. L’immagine non è più visibile in sito: si trattava di graffiti nella parete di una nicchia funeraria pagana, a circa ventidue metri dall’area tradizionalmente indicata come la sepoltura di Pietro. I segni tracciavano due teste, identificate come quelle di Cristo e dell’apostolo Pietro, e intorno parole in greco dal valore teologico evidente. Per questo materiale, che rimase documentato solo in stampe e appunti, il ritorno all’attenzione pubblica apre nuove domande sul linguaggio della fede primitiva. Un dettaglio che molti sottovalutano è la distanza fisica e simbolica fra la nicchia e la tomba attribuita a Pietro: la vicinanza non significa coincidenza, ma suggerisce un ambiente di devozione diffusa e stratificata nel tempo. Chi ha consultato il volume della metà del Novecento sa che la testimonianza della documentazione fotografica e grafica fu necessaria per preservare segni poi perduti. Nel quadro della discussione sul Credo niceno e sulle formulazioni dottrinali antecedenti il Concilio, questo documento riemerge come elemento di confronto e riflessione, non come prova unica e definitiva.
Il contesto archeologico e il ruolo del documento
La scoperta, così come fu presentata nelle pubblicazioni della prima metà del Novecento, fu il frutto di scavi sistematici nella vasta necropoli sotto San Pietro. Il graffito era inciso su uno stucco di una nicchia funeraria pagana trasformata in punto di riferimento per pratiche di devozione. Le quattro parole greche riportate intorno alle figure — catabasis, anabasis, anastasis e dexiost(a)sis — vennero interpretate come una sintesi teologica della fede: discesa agli inferi, ascensione, resurrezione e «siede alla destra del Padre». Secondo la documentazione, queste iscrizioni formano un ventaglio concettuale che sembra anticipare alcuni passaggi della professione di fede successiva.

La responsabile della ricostruzione e della lettura fu l’epigrafista Margherita Guarducci, che nel 1953 pubblicò il volume dove descriveva il reperto in dettaglio. Guarducci non si limitò a segnalare i segni: li collegò all’orizzonte dottrinale dei primi secoli, sostenendo che elementi essenziali del Credo risultavano presenti in forme popolari e devozionali ben prima del Concilio di Nicea. La posizione è stata dibattuta e, per anni, il documento è rimasto sullo sfondo degli studi. Un aspetto che sfugge a chi vive in città è la fragilità della testimonianza materiale: molte immagini e iscrizioni sono andate perdute per lavori di copertura e per il tempo, per cui testi pubblicati negli anni Quaranta e Cinquanta restano fonti preziose. Negli ultimi anni, con il rinnovarsi del dibattito sul Credo niceno e in vista delle commemorazioni legate al Concilio di Nicea, questo materiale è stato riportato in esame. Il libro della Guarducci e le analisi successive, così come la recente attenzione editoriale, non cambiano da sole la storia delle origini, ma offrono uno sguardo concreto su come la fede fosse già espressa in forme visive e verbali nella comunità cristiana primitiva.
L’eredità di Guarducci e il recupero della testimonianza
La figura di Margherita Guarducci è centrale per capire perché il graffito abbia conservato rilevanza: epigrafista di formazione solida e direttrice di scavo, Guarducci collegò scavo, analisi epigrafica e lettura storica in modo organico. La sua interpretazione della creatura a due uccelli con un corpo unico come Cristo-Fenice fu motivata dalla simbologia della rinascita: un’immagine che rinvia alla palingenesi e all’idea del Risorto come principio di vita eterna. Per la studiosa, l’unione dell’immagine con le quattro parole greche rappresentava una sintesi teologica già operante nelle pratiche devozionali. Negli anni successivi la figura di Guarducci ha ricevuto una rivalutazione critica, anche attraverso studi biografici recenti che hanno ricostruito il peso delle sue scoperte e le controversie che le accompagnarono. Il recupero del volume consegnato a don Alfredo Fernández Martin e l’interesse suscitato da studi contemporanei hanno riportato in evidenza la possibilità che alcune formulazioni dottrinali circolassero in maniera non ufficiale ma diffusa. Un dettaglio che molti sottovalutano è il ruolo delle pratiche popolari e delle immagini nella formazione del linguaggio teologico: libro e fotografie conservate negli archivi mostrano quanto l’arte e l’epigrafia partecipassero alla trasmissione della fede. Il recente interesse editoriale attorno alla vicenda non modifica in modo automatico le letture accademiche consolidate, ma rende più visibile un dossier documentario che merita confronto critico. La presenza delle parole greche e dell’immagine del Risorto nello stesso spazio scavato sotto la basilica resta un dato concreto che arricchisce la comprensione della religiosità cristiana dei primi secoli, con ripercussioni sulla lettura della formazione del Credo e sulla storia della devozione nel Lazio e oltre.
