Una scrivania vuota, il badge che non passa più alla tornello e una videochiamata che sostituisce il corridoio. In molte sedi il lavoro si è spostato parzialmente fuori dall’ufficio e la sensazione è chiara: la flessibilità non è più un’eccezione ma una componente stabile dell’organizzazione. I numeri confermano un’espansione significativa: circa 3,5 milioni di lavoratori in Italia hanno accesso allo smart working, ma non tutti ricavano gli stessi benefici. È questa la fotografia che emerge da un’analisi della Banca d’Italia, che mette a fuoco differenze nette tra imprese con esperienza consolidata e chi si è avvicinato al lavoro agile solo di recente.
Chi trae vantaggio: esperienza, dimensione e competenze
L’analisi mostra che i risultati positivi dello smart working non sono automatici: sono più evidenti nelle imprese che lo praticano da tempo e nelle grandi imprese dove ci sono procedure, infrastrutture e ruoli manageriali strutturati. In queste realtà emergono miglioramenti sulla produttività e sulla conciliazione dei tempi, mentre le aziende più piccole spesso faticano a replicare gli stessi guadagni. Un dettaglio che molti sottovalutano: non è solo tecnologia, ma anche capacità di gestione del lavoro a distanza, spiega lo studio.

Le competenze digitali dei dipendenti e la formazione dei manager risultano decisive. Dove sono presenti percorsi di formazione mirata e strumenti di monitoraggio chiari, lo smart working si traduce in processi più snelli e in meno riunioni inutili. Al contrario, in contesti con scarsa esperienza la flessibilità rischia di diventare disorganizzazione: turni non coordinati, sovrapposizione di mansioni e difficoltà nel valutare il carico di lavoro. Un fenomeno che in molte città italiane si nota nelle PMI, dove la tecnologia c’è ma la governance manca.
Lo studio della Banca d’Italia segnala inoltre differenze settoriali: nei servizi e nella finanza i benefici sono più marcati rispetto a settori che richiedono presenza fisica. Questo porta a disuguaglianze tra lavoratori e a tensioni nella contrattazione. Un aspetto che sfugge a chi vive in città: lo smart working non è una soluzione neutra, ma una leva che accentua differenze già esistenti.
Criticità pratiche e cosa serve per estendere i benefici
L’espansione dello smart working solleva questioni concrete: orari e diritti, strumenti tecnologici, gestione della privacy e sostenibilità degli spazi. Secondo la ricerca, molte imprese non hanno ancora definito regole chiare su presenza minima, reperibilità e valutazione dei risultati, lasciando margini di confusione. Chi lavora da remoto spesso segnala maggiore autonomia ma anche difficoltà a staccare, mentre i manager lamentano la perdita di controllo sugli obiettivi. Un fenomeno che in molti notano solo d’inverno, quando le riunioni in presenza diminuiscono ulteriormente.
Per ampliare i vantaggi e ridurre le criticità servono investimenti mirati: connessioni più robuste, piattaforme integrate e programmi formativi per le competenze manageriali. Le politiche aziendali che funzionano combinano tecnologia, regole chiare e azioni di formazione continua. Dove questi elementi mancano, lo smart working rischia di restare un fattore di discontinuità più che un motore di innovazione. Un aspetto che sfugge a chi pensa che basti un laptop per risolvere tutto.
Infine, c’è la dimensione territoriale: le città del Nord presentano tassi di adozione più alti rispetto ad altre aree, con impatti diversi su mobilità e mercato immobiliare. Per questo motivo i policy maker e le aziende devono lavorare insieme su norme che favoriscano equità e sostenibilità. Una conseguenza pratica: senza una strategia complessiva molte imprese continueranno a vedere lo smart working come un’opportunità parziale, utile solo a chi ha già le carte in regola per sfruttarla.
